E’ diffamazione aggravata offendere la reputazione di una persona dileggiandola pubblicamente su Facebook per un difetto fisico.

Segnalo la sentenza numero 251.2023 – depositata il 09.01.2023, resa dalla sezione quinta penale della Suprema Corte, che si è pronunciata sulla possibilità sussumere nel reato di diffamazione aggravata le espressioni che offendono la reputazione di una persona, mettendone in evidenza con deprecabile ironia alcuni difetti fisici su cui veniva posta l’attenzione con finalità dispregiativa.  

Secondo quanto si evince dalla sentenza annotata l’imputato era stato  tratto a giudizio per il reato previsto e punito dall’art. 595, III comma cod. pen., perché tramite il social network “Facebook” e pubblicando opinioni in un “post” pubblico dedicato ai problemi di viabilità del locale Comune, faceva espresso riferimento a deficit visivi della parte civile («punti di vista, anche storta» … «mi verrebbe da scrivere la lince, ma ho rispetto per la gente sfortunata», con più “emoticon” simboleggianti risate), dileggiandola.

Il Tribunale all’esito del processo di primo grado affermava la responsabilità dell’imputato con condanna al risarcimento dei danni; la sentenza veniva integralmente riformata all’esito del giudizio di appello. 

La costituita parte civile proponeva ricorso per cassazione articolando plurimi motivi.

La Suprema Corte, in accoglimento dell’impugnazione interposta dalla sola parte privata, ha annullato la sentenza di secondo grado limitatamente agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Di seguito si riportano i passaggi tratti dal costrutto argomentativo della sentenza in commento di interesse per la presente nota: 

“In ogni caso, l’eccezione difensiva va condivisa, dacché la condotta di chi metta alla berlina una persona per talune caratteristiche fisiche, comunicando con più persone, può certo considerarsi un’aggressione alla reputazione di una persona, come già statuito da questa Corte (Sez. 5, n. 32789 del 13/05/2016, Ceresa, Rv. 267399 – 01: integra «il reato di diffamazione il riferirsi ad una persona con una espressione che, pur richiamando un handicap motorio effettivo, contenga una carica dispregiativa che, per il comune sentire, rappresenti una aggressione alla reputazione della persona, messa alla berlina per le sue caratteristiche fisiche»; nella fattispecie la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione di condanna nei confronti del soggetto che, comunicando con più persone, qualificava la persona offesa nel contesto di una discussione come “la zoppetta”»). 

Che la reputazione individuale (da non confondersi, naturalmente, con la mera considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor proprio, posto che il bene giuridico tutelato dalla norma di cui all’art. 595 cod. pen. è eminentemente relazionale, tutelando il senso della dignità personale in relazione al gruppo sociale) sia «un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona» è stato ricordato, più di recente dalla Corte cost., con sentenza n. 150 del 2021. 

Ed è proprio la correlazione tra dignità e reputazione a venire in rilievo nel caso di specie, posto che le espressioni adoperate dell’imputato sottendono una deminutio della persona offesa, che, in quanto ipovedente, non avrebbe dignità di interlocuzione pari a quella degli altri utenti della piattaforma.

By Claudio Ramelli© RIPRODUZIONE RISERVATA